Riflessioni di Padre Vittorio Bonfanti sui suoi 5 anni di vita e di lavoro in Sicilia, a Modica, in una comunità formata da missionari e missionarie di istituti diversi, nell’ambito di un progetto di vicinanza nei confronti dei tanti immigrati che sbarcano nel Sud Italia carichi di speranze.
Qualche anno fa Papa Francesco visitò il carcere di Palmanova in Bolivia, considerato uno dei più pericolosi del Sudamerica. Trovandosi davanti ai ragazzi detenuti esordì dicendo: “Chi c’è davanti a voi? Potreste domandarvi. Vorrei rispondere alla domanda con una certezza della mia vita, con una certezza che mi ha segnato per sempre. Quello che sta davanti a voi è un uomo perdonato. Un uomo che è stato salvato dai suoi molti peccati. Ed è così che mi presento. Non ho molto da darvi o offrirvi, ma quello che ho e quello che amo, sì, voglio darvelo, voglio condividerlo: Gesù Cristo, la misericordia del Padre!”.
Queste parole esprimono bene il senso dell’approccio che ho avuto sin dall’inizio della mia esperienza nella Comunità Intercongregazionale di Modica, in provincia di Ragusa (composta da due sacerdoti e due religiose di quattro Istituti missionari diversi accolti dalla diocesi della CIMI, Conferenza degli Istituti Missionari Italiani), nell’ambito del progetto Lampedusa di presenza missionaria tra gli immigrati sbarcati in Sicilia. La sfida iniziale era imponente: davanti a noi c’era il sud Italia con una presenza di Istituti Missionari quasi assente, e dove da qualche anno erano iniziati gli sbarchi dei nostri fratelli migranti e dove la situazione ci chiamava a una nuova missione possibile: un lavoro unitario su obiettivi comuni fatto da missionari con storie e carismi diversi! Ascoltare, stare in mezzo, aprire cammini nuovi, incontrare persone e insieme a loro far brillare la dignità, le meraviglie di Dio in ciascuno tante volte occultate da tante ferite della vita.
Gettato in un nuovo orizzonte
Da questi incontri e da questi ascolti è emerso un messaggio per la comunità che ci ha guidato fin dall’inizio e che ritengo importante anche per il suo prosieguo: non partire con schemi pre-confezionati ma accettare la scommessa di essere gettati in un nuovo orizzonte. Aperti all’altro a cui ci facciamo prossimi consapevoli che è sempre un segno dell’Altro che ci ha chiamati alla nostra vocazione, con il rischio che è al tempo stesso una scommessa che i progetti da noi pensati non siano quelli di cui i fratelli hanno bisogno!
Da sempre per noi missionari è lo sguardo che ci aiuta a capire verso dove dirigere la nostra rotta. La passione per le fragilità di questo mondo ci porta intanto a non lasciare mai nessuno senza un ascolto o una parola di conforto e vicinanza. Forse il paragone con il profeta Isaia è azzardato, ma credo che come Dio abbia scritto i nostri nomi nel palmo delle sue mani, così anche noi siamo chiamati a scrivere i nomi dei fratelli che incontriamo nel nostro cuore. Nella rubrica del mio cellulare in questi cinque anni ho registrato i nomi di centinaia di ragazzi migranti che ho conosciuto, giovani in gran parte africani che hanno lasciato le proprie terre e i propri affetti, che hanno rischiato la propria vita e che si trovano smarriti in un Paese straniero: penso che sia importante per chi si trova in un posto lontano da casa e dagli affetti avere qualcuno a cui telefonare anche solo per scambiare due chiacchere.
L’importanza di un caffè assieme
Le fragilità sono da sempre attorno a noi, frutto di tante ingiustizie soprattutto economiche, sta a noi avere gli occhi per vederle e per riconoscere i bisogni. Proprio da questa spontaneità di incontri e di presenze sono nati in questi anni alcuni progetti e servizi con i nostri fratelli migranti. Ma il mio principale lavoro è stato quello di ascoltare questi giovani, scambiare parole e riflessioni, passare intere giornate con loro, senza approcci caritatevoli o assistenziali, ma con uno spirito di condivisione, di empatia, di semplice amicizia. Di questi cinque anni qui mi porterò sempre il calore tutto siciliano dell’accoglienza che va oltre l’ufficialità e ti coinvolge la vita. Il vescovo di Pinerolo mons Derio ha intitolato la sua ultima lettera pastorale “Lo vuoi un caffè?” a indicare l’importanza di offrire e ricevere un dono semplice, quale è quello della condivisione di un caffè che apre poi alla condivisione della vita e delle possibilità di aiutarci reciprocamente. Dai caffè e dai pranzi frugali col riso condivisi con i ragazzi migranti della diocesi di Noto sono nati aiuti concreti: soluzioni abitative per venire incontro alle necessità di chi a causa dei “decreti sicurezza” si trovava senza alloggio, un centro di socializzazione a Pozzallo per offrire un aiuto a chi restava nell’hotspot, il servizio di trasporto lavorativo per i ragazzi che lavorano nelle serre lontano da casa. Ma la mia presenza missionaria a Modica non è stata incentrata su grandi progetti, ma è stata ispirata dalle persone.
Ciò che davvero resta…
La comunità intercongregazionale non è una onlus né una cooperativa: non siamo professionisti dell’umanitario. Ma in quanto missionari dobbiamo avere a cuore i destini e i bisogni anche di una sola persona, operare prima di tutto sull’incontro con le persone e sulla valorizzazione della loro dignità: questo ci ha insegnato la nostra vocazione ad andare verso le periferie. Senza preoccuparci dei grandi numeri o dei risultati immediati perché evangelicamente sappiamo quanto può dissetare un bicchiere di acqua fresca, quanto anche il più piccolo gesto che facciamo possa essere balsamo per chi lo riceve, quanto un caffè condiviso possa cambiare il senso della giornata. Il Vangelo ci ricorda come in fondo quello che resta è ciò che abbiamo donato, per quanto possa sembrare piccolo e insignificante! Chi avrà dato anche solo un bicchiere d’acqua fresca non perderà la ricompensa che è l’amore di Dio stesso. Per quanti nostri fratelli in questi cinque anni io sono stato capace di essere acqua fresca? Ho dato l’acqua migliore che avevo? Sono stato capace di dare un’acqua oserei dire “affettuosa”, con dentro la partecipazione della mia vita? Spero di aver saputo in piccolo offrire questo, che era tutto quello che avevo ed è tutto ciò che ho: come disse Papa Francesco in Bolivia, un piccolo segno del Padre che non dimentica nessuno dei suoi figli e ci conta i capelli del capo – per quanto un frammento di capello sia insignificante – eppure niente delle persone che amiamo, nessun frammento è mai insignificante. Spero che la comunità in questo senso abbia saputo cogliere frammenti e continui a farlo come la cosa più importante!